Gruppo BCGZ

Walter Barbero, 1941 | Baran Ciagà, 1934 | Giuseppe Gambirasio, 1930 | Giorgio Zenoni, 1935

Per una quindicina d’anni, a partire dal 1967, il gruppo lavora a progetti che hanno lasciato un forte segno nella Bergamo di quel periodo, tra i quali il Duse e la Chiesa dei frati di Valtesse, non limitandosi a progettare edifici, ma costruendo “spazi di vita”. Le opere di questo periodo sono tutte pubblicate nelle maggiori riviste italiane ed europee di architettura dell’epoca, presenti in archivio, e segnalano l’esito positivo di un modo “jazzistico” di progettare in gruppo.
Quattro persone molto diverse tra loro per origine e formazione. La parola “gruppo” per consacrare la modalità lavorativa che connoterà in modo specifico il loro rapporto. Un collettivo le cui ragioni sono descritte, con sapienza retorica, dagli stessi autori nell’autopresentazione curata da Walter Barbero e pubblicata nel 1972 sul n. 361 di Casabella:
«Caro Mendini, […] ci avevi chiesto di parlare di noi come gruppo, e ci viene il dubbio di non essere un gruppo, almeno nella tradizionale accezione del termine. Il nostro gruppo non esiste come organizzazione precostituita a carattere più o meno efficientista e i motivi del lavoro in comune sono quasi sempre extra-lavorativi. Il gruppo esiste invece come sequenza di sperimentazioni (sia di progettazione, sia di funzionamento del gruppo stesso). Infine per noi il gruppo è un modo di lavorare e non deve diventare una istituzione. Questo anche possiamo dire: che siamo ottimisti sulle possibilità della progettazione (tanto che continuiamo a progettare divertendoci perfino, ma non tanto da credere in teorie universali ed esaustive dell’architettura).
E, per finire, se è lecito fare delle considerazioni a posteriori e generalizzabili sul nostro lavoro, certamente la più significativa riguarda il carattere sperimentale della nostra progettazione. Sperimentazione continua, caso per caso, che nasce dalla coscienza delle contraddizioni in cui ci troviamo ad operare (non escluso il nostro contraddittorio esserci). Il progetto nasce nel corto circuito provocato da situazioni contraddittorie e l’architettura che si forma è il risultato del compromesso che siamo riusciti a far accettare o che ci è stato imposto».